

È esperienza comune essere sovrappensiero durante la guida: assorti nei nostri problemi ci ritroviamo involontariamente a imboccare una strada sconosciuta o a sorprenderci proprio sotto casa quando invece eravamo diretti in ufficio. La motivazione è nota: negli anni abbiamo automatizzato l’azione del guidare relegando le interazioni necessarie alla zona più primitiva e istintiva del nostro cervello.
L’automazione dei processi aziendali obbedisce alle stesse logiche: è possibile robotizzare quelle parti di processo ripetitive e meccaniche mettendo in conto possibili errori e la mancata individuazione delle inevitabili eccezioni. È chiaro che l’automazione di un processo costringe a generalizzazioni e a normalizzazioni che lo rendono “cablato” e “invisibile”: se da un lato tutto ciò consente di “dimenticare” le logiche operative sottostanti, dall’altro impone una perdita di controllo e la potenziale generazione di errori.
Chi non ha provato l’esperienza frustante di utilizzare un servizio di help desk con risponditore automatico? Non ci sono dubbi: l’utenza che non ritrova la sua problematica di disservizio nel menu proposto dal risponditore è a rischio disdetta. È un rischio tollerabile?
L’email in particolar modo è diventata il mezzo più usato per notificare dissensi o impedimenti, per comunicare criticità e difficoltà, sottraendo questi eventi al normale confronto interattivo e costringendo l’interlocutore ad esporsi con risposte formali sempre rischiose e incomplete. Insomma il digitale sta uccidendo due delle più importanti facoltà umane: la riflessione e la negoziazione.
La desuetudine alla riflessione e alla negoziazione ci rende maleducati.
L’altro elemento che alimenta l’arroganza digitale è l’information overloading, ovvero il sovraccarico cognitivo che si verifica quando si ricevono troppe informazioni digitali.
La numerosità delle email, dei post da seguire, creano una sensazione di inadeguatezza e impotenza che impediscono di prendere decisioni e condannano le persone ad una sorta di immobilità diffusa. Si può dire che l’information overloading sia un effetto della maleducazione digitale e nello stesso tempo la causa. Una certa insolenza ci induce a subissare di email i nostri colleghi, insolenza di cui siamo a nostra volta vittime e che non ci consente di rispondere e di rispettare le normali regole di riscontro.
Un altro rischio della over automation è l’idea di poter liberare energie e risorse per impiegarle in altro. Nel mitico film di animazione “Alla ricerca di Nemo”, l’arguto pesce tropicale Branchia pianifica da tempo la fuga sua e dei suoi compagni di acquario verso l’oceano. Con una azione surreale riesce nell’impresa. La scena finale è fantastica: imprigionati in un sacchetto di plastica, i nostri eroi, dopo aver conquistano il mare, si chiedono in coro “So what?”.
Nella maggioranza dei progetti di automazione si trascura il fenomeno che gli addetti al processo sono abituati alla “cattività” del vecchi flussi di lavoro e non sono ancora adeguati a svolgere funzioni diverse da quelle diventate obsolete. Valutare gli effetti reali del “change” è spesso complesso e l’assenza di un progetto completo di rivisitazione digitale dell’intero processo può vanificare gli sforzi fatti. Focalizzare gli investimenti solo sulle aree robotizzabili fa emergere immediatamente i gap nel supporto delle fasi decisionali e del lavoro collaborativo.
Ultima osservazione: nessun processo di business può essere ingabbiato in una struttura predefinita. La aree non definite, le fasi di lavoro a “quattro mani”, le azioni correttive in progress sono innumerevoli e impossibili da disegnare a priori. Standardizzare alcune parti è augurabile ma sovradimensionare il perimetro di applicazione e/o strutturare in modo eccessivo può essere letale. Mixare strumenti che robotizzano con soluzioni che reggono la creatività degli utenti e ne supportino le esigenze di adattabilità è la sfida più difficile della Digital Transformation.
In conclusione l’automazione può essere buona o cattiva, ma questo è scontato. Ciò che è meno ovvio e che il digitale funziona bene quando si occupa degli umani e rappresenta una leva per sviluppare opportunità reali di crescita e funziona meno, o quasi per nulla, quando si mira cecamente all’efficienza e al taglio dei costi. La misura più importante di qualsiasi trasformazione digitale rimane l’uomo, il suo spazio di azione, la sua capacità di esprimersi con successo.
E citando ancora Nemo: “I pesci non sono fatti per vivere rinchiusi. L’acquario ti cambia dentro.”
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