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La memoria corta del digitale

By 28 Aprile 2023 No Comments

La memoria corta del digitale

Una delle mie abitudini più maniacali è quella di controllare con una certa sistematicità le “classifiche di sempre” degli ascolti su Spotify for Artist. Spotify conteggia gli ascolti per brano ormai da 15 anni e adotta delle regole semplici: il brano viene conteggiato quando viene ascoltato per più di 30 secondi e contano anche le cover o i remix.

Non mi è ancora chiaro perché soli 30 secondi dovrebbero essere sufficienti a definire un ascolto musicale come “concluso” o addirittura come indice di apprezzamento, soprattutto se penso che nel primo mezzo minuto di un brano di Mahler o di Shubert succeda poco o nulla. Ma va da sé che questa classifica mi appassiona da sempre.

Nell’ultimo update 2023 dei Top 100 troviamo in testa The Weeknd con il brano “Blinding Lights” con più di 3,5 miliardi di ascolti, segue Ed Sheeran con “Shape of You” con 3,4 miliardi. Per arrivare alla prima artista che ogni tanto ascolto (senza tanta passione) bisogna arrivare al 16° posto: Billie Eilish con 2,25 miliardi di “Bad Guy”. “Immagine” di John Lennon è fuori dai primi 100 con 0,5 miliardi di ascolti, “Yesterday” dei Beatles sugli stessi numeri, “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan non raggiunge gli 0,2 miliardi. Stessa sorte per Sting che vede “Shape of my heart” fermo a 0,25 miliardi: 2 miliardi in meno del brano “Lucid Dreams” del rapper Juice WRLD, citato in giudizio da Sting per aver utilizzato uno stralcio significativo proprio di “Shape of my heart”. Il povero Juice, morto solo a 21 anni per overdose, non dava alcun peso a questo furto e, come tutti i rapper, trovava naturale cantare sopra basi musicali altrui. Mi piace pensare che la stragrande maggioranza degli ascoltatori di Juice non sappia chi sia Sting (fatto parzialmente confermato da un piccolo sondaggio fatto su mio figlio 18enne e altri suoi coetanei). Spiegatelo voi a Sting che ha due miliardi in meno di ascolti solo perché non arriva agli adolescenti o è nato troppo presto.

Juice WRLD sarebbe riuscito a valorizzare così bene il suo furto senza il digitale?

No, non ce l’avrebbe fatta, perché non avrebbe convinto nessuno ad attivare la macchina costosissima della distribuzione e stampare CD per un prodotto così discutibile. La velocità di diffusione che garantiscono i servizi di streaming, la possibilità degli adolescenti di accedere gratuitamente a qualsiasi contenuto, le nuove modalità di produzione musicale a bassissimo costo, hanno reso impossibile qualsiasi forma di governo o di limitazione correlata al diritto di autore (se non a posteriori ovviamente).

Nei Top 100 di Spotify non ci sono i Pink Floyd, Bruce Springsteen, Elton John, i Radio Head, i REM, Michael Jackson, Frank Sinatra , Aretha Franklin. La “Moonlight” di Beethoven fa 0,142 miliardi, il concerto per piano N° 21 di Mozart langue a 0,07 miliardi e l’Aria sulla quarta corda di Bach 0,02 miliardi. Inutile dire che gli ascolti mensili di questi grandi classici sono in discesa costante.

Vi confesso un mio grande incubo: il giorno in cui l’ultimo ascoltatore di Bach al 29° secondo interromperà l’Aria di una sua opera a causa di un malore improvviso o semplicemente per noia. Ho scoperto che è un incubo condiviso: Julian Barnes, scrittore britannico lucidamente tatanofobico e uomo dotato di grande cinismo, in un recente saggio (sulla morte ovviamente) immagina il suo ultimo lettore dopo il quale la sua figura di scrittore sarà definitivamente rimossa dalla memoria collettiva. Inizialmente lo immagina con affetto, quasi con commozione, ma poi, dopo una lunga riflessione, individua in lui un poco di buono, un lettore distratto e superficiale, una “carogna” che non ha consigliato a nessuno quel libro che aveva fra le mani. Insomma, estinto per mancanza di “like”.

Ma cosa c’entra il digitale? Semplice: il digitale accelera l’obsolescenza e accorcia la memoria.

Paradossale, ma il più grande archivio, la più grande memoria inventata dagli umani, manda nell’oblio una quantità incredibile di informazioni grazie ai suoi algoritmi di “recommandation” che avvantaggiano la quantità anziché la qualità, il “contatto” con l’informazione piuttosto che la profondità o l’originalità.

Google e i social privilegiano la quantità di relazioni, di contatti, che un’informazione, un utente, un prodotto artistico o commerciale, hanno sul web. Non voglio dare un giudizio negativo su questo meccanismo tecnologico: in fondo le logiche del successo umano sono da sempre state vincolate alla capacità di essere visibili o dotati di tante e buone relazioni. Mi preme solo sottolineare che il tempo di ascesa e rilevanza di un’informazione e la relativa successiva decadenza nell’oblio si è accelerata grazie al digitale. Dunque, la musica di Bach verrà sempre meno consigliata e cadrà nel cono d’ombra di algoritmi sempre più efficienti nell’operazione di “tagliafuori” delle conoscenze impopolari.  La differenza culturale fra noi e i nostri figli si è allargata dando uno scossone alla memoria e ai ricordi in modo definitivo. 

Grazie a Spotify i miei nipoti non sapranno che musica ascoltava il nonno perché la musica non ha più supporti fisici (Vinile o CD) e, a dirla tutta, non è neanche di mia proprietà (perché l’unica cosa che compro è un diritto di ascolto). Io non ho cassetti personali, quelli di mio padre erano colmi di lettere, fotografie, appunti e da diversi raccoglitori zeppi di ricordi familiari. Le tracce della mia esistenza saranno sempre meno significative e la mia memoria sarà forse sepolta in qualche social o anfratto digitale ignorato (giustamente) dalla gran parte dei sistemi di intelligenza artificiale.

Il legislatore italiano ed europeo, insieme a molti giuristi, si fanno la punta al cervello per elaborare nuove norme che garantiscano il diritto all’oblio o la possibilità di un testamento digitale che garantisca la rimozione delle informazioni personali accumulate nel tempo. Buone intenzioni ovviamente, ma che non considerano che l’oblio digitale sia una conseguenza ineluttabile e che semmai bisognerebbe disciplinare la sopravvivenza e la possibilità di trasmettere ai propri cari le nostre preferenze, le nostre inclinazioni, le nostre memorie digitali.

Si chiama Inactive account manager ma è già stato ribattezzato in modo più lugubre Google Death Manager e fornisce ai detentori dei dati archiviati sui server di Google la possibilità, prima di cancellare tutto, di permettere a parenti e amici di accedere ai propri contenuti per massimo 3 mesi dalla scadenza di un periodo di inattività (max 18 mesi). C’è dunque la possibilità di indicare fino a dieci persone fidate a cui Google invierà via e-mail le credenziali per accedere all’account del dipartito. 

Dunque, Google non attende il nostro certificato di morte e si avvia automaticamente dopo un certo periodo di inattività di tutti i servizi che fanno capo a un suo account. Prima che questo avvenga, all’utente viene recapitato un sms per accertarsi che non si tratti di un’assenza dovuta a motivi meno definitivi. 

Lo so è un argomento macabro ma anche nei cimiteri, se non compri una soluzione di accoglienza perpetua, prima o poi si fa spazio…ma perché tanta fretta? Lo spazio cloud ha ormai capacità infinite ci dicono. Immagino che sia un problema di pulizia del web del prossimo futuro. Non deve essere carino cercare un Maurizio Savoca e trovare nell’esito della ricerca le foto o i dati di decine di defunti insignificanti.

Ciò non toglie che io vorrei ancora esserci. Ci tengo all’immortalità, almeno a quella digitale. E l’unico modo per esserci è conquistare una collocazione sempre più ingombrante in questo folle spazio virtuale.

 

 

Fine (trovo questa parola di congedo veramente adatta a questo articolo…)

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