Introduzione alla Digital Romantic Consulting
Parte prima
Parte prima
Da quasi un anno vi molesto con una serie di post firmati “Digital Romantic Consulting”…provo a spiegarvi il perché del titolo e a chiarire come mai sia così importante essere romantici…
Consulting è una delle poche parole inglesi che trovano la sua origine etimologica nel latino: consŭlo ovvero chiedere consiglio, domandare un parere, interpellare, ma anche prendersi cura, dare un aiuto. Nella pratica un individuo o una azienda che ha un problema, ma non possiede le conoscenze specialistiche per risolverlo, ricorre ad un consulente, che, grazie alla propria esperienza e preparazione, è in grado di aiutarlo a trovare una soluzione. Un’importante contributo semantico ci viene offerto da Galimberti che ci informa che “la consulenza si distingue dalla psicoterapia sia perché si rivolge a persone considerate “normali”, sia perché non si fa carico del problema lasciando al soggetto la piena responsabilità delle sue azioni successive”. Il che ci ricorda che un consulente non ha mai la responsabilità di quello che fa e che ci si può rivolgere a lui senza sentirsi schizofrenici!
La consulenza gode di buona salute: il fatturato italiano del settore si è incrementato nel 2018 dell’8% e gli addetti stabili nel nostro paese sono ben 42.000.
Se facciamo due conti la sintesi è facile: dato che le aziende che hanno dirigenti in Italia sono circa 27.000, oggi, nella vostra azienda, ci sono probabilmente due consulenti attivi e, se non stanno già parlando con voi, vi stanno certamente inseguendo per elargirvi qualche utile consiglio.
Se immaginate uno stadio di calcio colmo di consulenti, se riflettete sulle 90 milioni di ore l’anno impiegate per farci spiegare come fare le cose, qualche dubbio sulla propria capacità risolutiva, qualche ombra sulla propria autostima dovrebbe pur nascere.
Ma non è così: il ricorso alla consulenza è ormai sistematico e il suo supporto diventa indispensabile e ineluttabile in quasi tutte le iniziative progettuali delle grandi aziende. Il perché di questo fenomeno non è alla portata di chi scrive, che, appartenendo fra l’altro alla popolarissima classe dei professionisti in oggetto, non potrebbe che mentire senza pudore sulla necessità di rivedere o riequilibrare il rapporto fra le aziende private e la consulenza.
È però possibile intravedere qualche piccolissima stortura:
- La prima: i consulenti dovrebbero essere esperti di metodologie e processi realizzativi utili a risolvere i nostri problemi o a raggiungere i nostri obiettivi: persone che hanno costruito la propria professionalità, la loro specializzazione facendo esperienza sul campo, persone con buone capacità problem-solving che sono potenzialmente adatte a spendere la propria attitudine sul mercato. Questo implicherebbe che, dopo qualche decennio impiegato a risolvere problemi analoghi, il professionista in questione diventi un consulente. Ovvio direte. Ma non è così: solo quest’anno le compagini dei professional sono aumentate di 3.000 unità di neolaureati. Non solo sono rarissimi i casi in cui le figure specializzate di aziende private abbandonino il vecchio posto di lavoro per farsi assumere dalle aziende di consulenza, ma è addirittura vero il contrario: molti ragazzi neo-consulenti si costruiscono una specializzazione lavorando a quattromani con i clienti e, quando possono, trovano un posto di lavoro presso gli addetti ai lavori. Ricapitoliamo: le aziende chiedono consulenza, la consulenza assume neolaureati e li offre al mercato, il mercato assume i consulenti appena cresciuti, e questi ultimi, forse per riconoscenza o per mancanza di idee, acquistano altra consulenza… siamo di fronte ad uno dei più grandi fenomeni autoreferenziali di collocamento circolare…
- La seconda: la consulenza dovrebbe risolvere problemi o agire da facilitatore per consentire alle aziende di realizzare progetti orientati al conseguimento di un certo obiettivo. Insomma voglio risolvere una criticità o raggiungere un nuovo risultato economico e dunque ricorro alla consulenza: so COSA voglio ma non so COME fare. Oggi questo paradigma è stato alterato, a volte addirittura capovolto: una sorta di impeto collettivo, quasi masochista, ci porta sempre più spesso a fare domande del tipo “CHI sono?”, “COSA dovrei fare?”, “In che modo posso inquadrare le mie attività nell’Industry 4.0?”, “La BlockChain può fare al caso mio?”. Insomma non sappiamo cosa vogliamo, non abbiamo elaborato alcuna strategia e a causa di questa inspiegabile crisi identitaria affidiamo il nostro destino alla più contemporanea delle forme di stregoneria: la consulenza strategica. i consulenti dovrebbero essere esperti di metodologie e processi realizzativi utili a risolvere i nostri problemi o a raggiungere i nostri obiettivi: persone che hanno costruito la propria professionalità, la loro specializzazione facendo esperienza sul campo, persone con buone capacità problem-solving che sono potenzialmente adatte a spendere la propria attitudine sul mercato. Questo implicherebbe che, dopo qualche decennio impiegato a risolvere problemi analoghi, il professionista in questione diventi un consulente. Ovvio direte. Ma non è così: solo quest’anno le compagini dei professional sono aumentate di 3.000 unità di neolaureati. Non solo sono rarissimi i casi in cui le figure specializzate di aziende private abbandonino il vecchio posto di lavoro per farsi assumere dalle aziende di consulenza, ma è addirittura vero il contrario: molti ragazzi neo-consulenti si costruiscono una specializzazione lavorando a quattromani con i clienti e, quando possono, trovano un posto di lavoro presso gli addetti ai lavori. Ricapitoliamo: le aziende chiedono consulenza, la consulenza assume neolaureati e li offre al mercato, il mercato assume i consulenti appena cresciuti, e questi ultimi, forse per riconoscenza o per mancanza di idee, acquistano altra consulenza… siamo di fronte ad uno dei più grandi fenomeni autoreferenziali di collocamento circolare…
Dal 2017 una parte significativa della crescita è stata trainata dalla consulenza legata alla “Digital Transformation”; la consulenza manageriale di area IT è cresciuta di quasi il 30% e rappresenta la principale area di specializzazione, con una quota di mercato del 20% (Fonte: rapporto AssoConsult 2017/18). Il che testimonia due verità: la prima che le aziende ricorrono maggiormente alla consulenza nei momenti di discontinuità e di trasformazione; la seconda che più l’argomento è indefinito e difficile da declinare in procedure pratiche e più le aziende si affidano all’esterno. In questo momento migliaia di consulenti IT sono impegnati a scrivere l’agenda digitale di importanti imprese italiane. L’occasione è ghiotta: le direzioni destinano budget, prima impensabili, sul desiderio di impostare nuovi modelli di business basati sui processi digitali. Di fronte all’imminenza di una forte trasformazione i manager vanno in ansia e chiedono innovazione e cambiamento. Ma proprio nelle fasi di maggior trasformazione dell’ecosistema economico e tecnologico le azioni tradizionali, le procedure pregresse vanno in crisi e nessuno è in grado di fare predizioni coerenti sulla base dei modelli consolidati, neanche i consulenti. Nel migliore dei casi la consulenza strutturata propone modelli di successo che sono stati sperimentati in realtà analoghe, casi positivi della industry di riferimento…vestiti di seconda mano a volte troppo stretti o troppo larghi per i nostri bisogni.
La Digital Transformation ha lo stesso effetto dell’ornitorinco: a causa sua Darwin fu costretto a rivedere tutte le sue certezze sull’origine della specie e tutte le sue idee sull’evoluzione. L’ornitorinco è un mammifero ma depone le uova, ha una pelliccia ma possiede una specie di becco e le zampe palmate, è in grado di secernere veleno come un serpente e di muovere la coda come un castoro. Una mutazione biologica che gettò Darwin nello sconforto. La Digital Transformation non dà punti di riferimento, non propone strade già percorse: è una mutazione tecnologica e come tutte le mutazioni crea spaesamento e discontinuità.
(Continua)
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